Pieve di Santa Maria Annunziata a Monte Sorbo
Mercato Saraceno
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La pieve di Santa Maria Annunziata di Monte Sorbo, edificio chiesastico d’importante interesse storico e artistico, appare come una modesta ma tipica pieve rurale, isolata su di un poggio e immersa nel silenzio della campagna circostante, cui fanno corona clivi più elevati e variamente digradanti; un’attenta osservazione delle caratteristiche costruttive, dell’icnografia interna, della quantità e tipologia dei reperti ivi reimpiegati e custoditi rende ancora più fascinosa una chiesetta che gradatamente trasforma e muta l’umile aspetto in forme e reperti di grande nobiltà, velando e dissimulando misteriose e antiche origini. L’erudizione locale e la tradizione hanno giustificato la notevole presenza di materiale architettonico e scultoreo antico con l’esistenza di un tempio romano: ma, nonostante la suggestione dell’ipotesi, non esiste alcun elemento capace di suffragare una tale affermazione.
Monte Sorbo resta un luogo singolare, dove l’uomo, la fede e l’arte hanno creato e ricreato, costruito e distrutto, edificato e smantellato: così che la pieve non è soltanto una reliquia, ma una reliquia di reliquie.
Fino a ieri i documenti, per la verità scarsi e tuttavia più volte interrogati, fornivano risposte deludenti: ci si doveva fermare al 1223 per reperire la prima notizia sulla pieve. Questa data, compatibile con l’impianto romanico dell’abside, non lo era affatto per mettere a fuoco le origini: risultando impossibile pensare che tutto il materiale fosse qui giunto tra XII e XIII secolo, caratterizzato com’è da materiale romano di spoglio e reimpiego e da splendidi reperti di fattura e figurazione longobarde, paragonabili alle celebri sculture di Cividale del Friuli (si segnalano, in particolare: gli spolia romani costituiti dalle colonne e dai capitelli delle navate; reperti paleocristiani quali la mensa dell’altare maggiore, le colonnette del ciborio e frammenti epigrafici; un pilastrino longobardo con dextera Domini dell’VIII secolo; vari frammenti di plutei altomedievali; una lastra con croce ed epigrafe di fine VIII - inizi IX secolo, di àmbito carolingio, solo esempio di questa particolare tipologia di monumento; le quattro arcate di ciborio altomedievale con figure di aquile, pavoni, mostri marini ed elementi vegetali; la lastra del vescovo Florentius, del secolo X, con citazione di versetti di Salmi che ricorrono per la prima volta in epigrafia proprio a Monte Sorbo). Oggi, grazie al restauro e agli studi recenti, nuovi dati arretrano di qualche secolo le prime informazioni certe su Monte Sorbo e ne mutano addirittura il nome in Santa Maria Maggiore, il titolo con il quale fino a oggi veniva erroneamente identificata la pieve urbana di Sarsina, talvolta confusa con la cattedrale. Va poi detto che il territorio di Santa Maria Maggiore prima, Santa Maria Annunziata in Monte Sorbo poi, è strettamente connesso con Bobbio (il secondo nome medievale di Sarsina) e l’omonima contea, con Ciola e la sua strategica rocca: insomma, l’intero contesto ambientale che fa capo a Monte Sorbo e Ciola torna prepotentemente sulla scena storica e illumina le antiche vicende diocesane sarsinati. È ancora una pergamena ravennate datata 867 (Archivio Arcivescovile di Ravenna, perg. 1816) a citare indirettamente il pievato di Monte Sorbo.
La prima attestazione della pieve risale al 15 gennaio 948: «pleve Sansancte Marie qui vocatur in Sarcenates» (Archivio Arcivescovile di Ravenna, perg. 2702); poi dall’inizio dell’XI al XIII secolo nei documenti risulta quale «plebem Sancte Marie Maioris» (Archivio Diocesano di Cesena, Capitolo, pergamene, 2 giugno 1042, 4 luglio 1155, 7 novembre 1175, 13 marzo 1186, 14 maggio 1259), a lungo erroneamente identificata come la pieve urbana di Sarsina. Quindi la pieve di Santa Maria Maggiore risulta essere una delle più antiche della diocesi anche se la sua fondazione, come edificio sacro, è da far risalire addirittura al VI-VII secolo. La prima menzione quale pieve di Monte Sorbo è in un documento, oggi perduto, giunto a noi in copia regestata; l’atto, datato 3 ottobre 1223, riguarda la vendita di diversi beni, da parte di Cacciaguerra da Montepetra, al vescovo di Sarsina e a Berardo. La pieve, eretta in posizione centrale tra le valli dei fiumi Savio e Borello, occupa una posizione strategica nell’intero territorio diocesano.
Se la ricostruzione delle varie fasi architettoniche della chiesa risulta piuttosto complessa e problematica, la lettura e la valutazione dei numerosi e importanti reperti in opera e custoditi al suo interno conducono ad un plausibile quadro d’ipotesi. Un primo edificio paleocristiano (forse a pianta circolare) sorge intorno al VI-VII secolo, chiaramente per volontà del vescovo sarsinate: o per ragioni di sicurezza (Sarsina si trova in decadenza e rovina, è mal difendibile ed esposta a intrusioni), o per ragioni devozionali (forse è proprio qui la memoria storica di san Vicinio, che la tradizione manterrà viva anche se più tardi trasferita sulla sommità dell’omonimo e qui vicino monte: soltanto la connessione con il venerato protovescovo e taumaturgo sarsinate, il celebre santo del “collare”, può davvero giustificare il laborioso trasferimento dell’imponente materiale romano qui di reimpiego e la persistenza del ricco arredo artistico-liturgico via via prodotto); in questa fase le imponenti colonne (di marmo “Greco scritto” di verosimile origine turca dalla regione di Efeso) e i capitelli (in gran parte di marmo del Proconneso) vengono trasportati da Sarsina, probabilmente prelevati dai resti di quello che doveva essere il tempio maggiore della città (il cosiddetto santuario delle divinità orientali o il tempio votivo di Cesio Sabino). In una seconda fase, intorno all’VIII-IX secolo, viene arricchito l’arredo liturgico con il ciborio (i cui frammenti, di chiara matrice longobarda, sono ora esposti sulla parete sinistra della pieve), completato da recinzione liturgica con lastre, senza escludere l’esistenza di una pergula. Al X secolo potrebbe risalire il cantiere voluto dal vescovo Florentius, attestato dai resti della sua lastra tombale e ulteriormente documentato da una notizia d’archivio che parla di un suo cantiere edilizio. A cavallo dei secoli XII-XIII si colloca l’intervento romanico, forse concentrato sulla sola abside. Nel 1442 viene edificato l’attuale ciborio (la scoperta dell’epigrafe gotica dipinta, testimonianza superstite di un ciclo pittorico che rivestiva l’intero baldacchino e che va attribuito a un pittore d’area marchigiana in qualche maniera emulo dei fratelli Salimbeni di San Severino e vicino alla pittura di Antonio di Guido Alberti da Ferrara che nel 1437 firma gli affreschi della cappella del cimitero nella vicina Talamello, non ammette dubbi) riutilizzando le colonnette del precedente (rovinato per antichità o magari per terremoto). Seguiranno, fra Sei e Ottocento, ulteriori interventi, tanto all’esterno quanto all’interno. Mancano, purtroppo, dati di scavo: non li forniscono né l’indagine di Gerola nel 1912, né quella degli anni Ottanta del Novecento: ma forse è una ricerca inutile, perché cancellati dalle numerose ricostruzioni.
Il secolare oggetto di culto – verosimilmente giunto nella pieve poco dopo la costruzione del baldacchino del 1442: un indizio che si desume dal fatto che per ricoverare ed esporre alla venerazione l’immagine mariana il lato ovest del ciborio è stato murato per collocarvi al centro il dipinto, in tal modo preservando l’unico lacerto dell’affresco nel sottarco e tutelandone la stabilità – è costituito da una Madonna che adora il Bambino, meglio nota come Madonna di Monte Sorbo. La tempera su teletta di lino (cm 60 x 40) è stata variamente attribuita: segnalata da Antonio Corbara che la collocava nella cultura urbinate, concordemente assegnata a Bartolomeo di Maestro Gentile da Urbino (1465-1534) da Andrea Emiliani e Pietro Zampetti, accostata a Bernardino di Mariotto dello Stagno (1478ca-1566, pittore umbro trapiantato a San Severino Marche ed erede di Lorenzo di Maestro Alessandro detto Severinate o Lorenzo II) da Franco Faranda, viene ultimamente data da Bonita Cleri, che la colloca in una sfera di grande interesse, a un anonimo quattrocentesco dal forte linguaggio “adriatico”. Un restauro del 1961 ha salvaguardato la fragile teletta favorendone la piena leggibilità e rimuovendone gli aurei ex voto, dagli arcipreti applicati direttamente e dunque con perniciose conseguenze; ma ha altresì cancellato i segni visibili della venerazione e del profondo legame popolare.